Il tempo è un “grande scultore” ha scritto Marguerite Yourcenar. Se siffatto assioma è reale limitatamente alle emozioni e ai flashback di ciascuno di noi, giovane o adulto, donna o uomo che sia, che dal tempo sono saggiamente plasmati, veritiero è anche il contrario, se a “scolpire” il tempo sono le azioni, i gridi, i comportamenti che lo portano sul palcoscenico nella pratica collettiva delle istituzioni umane. Il tempo defluisce, perciò, ma nella raffigurazione leggendaria esso, anche, ricompare. Il suo è un viaggio irregolare per fasi riconosciute, e ogni volta distinguibili, grazie ai rituali, alle votate e gioiose cesure che denominiamo “feste”.
Impronta e contrassegno del tempo civilizzato, la dimensione di festa ospita i profili, continuativamente identici e diversi, del suo senso. Che tale oscilli, come un corpuscolo semplice, fra ri-plasmazioni epocali e congiunturali, non è che una garanzia dell’inestinguibile grandezza degli individui di ricalcarlo. Le feste, dunque, sono eventi articolati in cui l’ordine del sociale e, naturalmente, anche l’ordine del simbolico si attorcigliano in maniera inestricabile. Convengono in ciò, in questo ordine, quelli che Mauss (1965) chiamava “fatti sociali totali”, esposti cioè ad un coinvolgimento nel loro succedere e nella pluralità d’insieme dell’esistenza di un gruppo. André Leroi-Gourhan (1977) afferma che l’avvenimento per pregevolezza che connota l’uomo è la realizzazione di “ritmi”, a partire, in primis, dalla voce e del gesto. Il calendario conforme al rito, vivo in ogni società, ne mantiene gli esiti in relazione alla modificazione metaforica dello scorrimento spazio-temporale indeterminato in discretum stimabile e accertabile (Buttitta A. 1979).
Non è privo di significato che attività alimentari, rese sacre da un rito, rappresentino dei indicatori constanti dele scansioni basilari della creato e dell’uomo. L’elaborazione di un tempo che, ondeggiando fra assoluti e minimi vitali raccontati emblematicamente dalla gran quantità o dalla scarsezza degli alimenti, nuovamente disegna il perimetro dell’anno che è uno degli elementi caratterizzanti più durevoli del intelletto umano (Giallombardo 2003). Ecco che, a partire da questa considerazione, anche la festa di San Giuseppe, si inserisce nobilmente nel ricco e variamente organizzato quadro delle feste siciliane che trovano, questa tra le altre, nelle bancarelle consacrate a molti santi una dei suoi più attraenti sistemi. Un modo di agire devozionale che apre a un tempo trascorso che non è più e che è molto lontano. La linea del tramonto cultuale classico ne è connotato sufficientemente: cibi e bevande particolarmente accattivanti una volta offerti agli dei, oggi invece che arricchiscono le tavole e impreziosiscono le vetrine delle pasticcerie, come quella rinomatissima di Castrenza Pizzolato (per gli amici Enza), in via Fratelli Sant’Anna ad Alcamo. Tra questi il biscotto di San Giuseppe, con abbondante sesamo, in alcuni territori chiamato “Cucciddatu”. Ed in queste particolarissime feste il gesto della condivisione del pranzo o dei dolci è segno eccellentedella civiltà; una volta quello dei Greci contro quella dei Barbari. E ciò si può notare in special modo nella nostra civiltà siciliana dove, del resto, essa rimane proposta entro un orizzonte più arcaico.
In principio dèi e uomini oziavano fianco a fianco durante il banchetto. «I pasti allora erano comuni e comuni i seggi fragli Immortali e gli uomini mortali», rammenta Esiodo. Dopo arrivarono l’imbroglio di Prometeo e la rabbia di Zeus (Schmitt Pantel 1996: 114). Da quel momento in poi «se in un mitico passato uomini e dèi sedevano allo stesso tavolo e mangiavano lo stesso cibo, la colpa e la caduta implicarono la separazione delle mense e la differenziazione degli alimenti» (Montanari 1996: 74). È importante osservare che gli atti nutritivi festivi, certificabili in Sicilia, depongono a favore della circolarità dei cibi e la corrispondenza simmetrica fra uomini e entità sacrali, anziché che la loro netta divisione. Ecco, dunque, che in questo caleidoscopio di storia e tradizioni si inseriscono i santi. Nel nostro tempo i santi rappresentano il cardine ufficiale, ma non il solo, di quegli snodi rituali di scambio che attorcigliano il costrutto devozionale in responsabilità protettiva: del floridezza economica, della salute, dello status sociale. Si domanda, in realtà, la grazia pure per ottenere un titolo di studio o per comprare una abitazione di proprietà. Parecchi i Patroni ma persistente l’abitudine di pregare la protezione tramite la donazione di cibi.
Il primo dono però è, e continua ad esserlo, quello che si fa al palato. Scrive Fatima Giallombardo che nelle case e negli altari di San Giuseppe si riscontrano in grande numero anche delle piccolissime ciambelle, chiamate cuddureddi. Arance e limoni, infine, vengono frammisti ordinatamente ai pani. Le cene non sarebbero tuttavia complete se mancassero, ai piedi delle colonne, due mazzi di finocchi verdi. L’antica simbologia agraria, rappresentata nelle forme esuberanti della natura e del cosmo, si raccorda senza soluzione di continuità con la più recente simbologia cristiana anche nei pani disposti sull’altare. Al centro fanno spicco i cucciddati, di peso variabile, dai tre ai sette chilogrammi, che vengono offerti, a conclusione della festa, ai santi.
Essi riproducono il “bastone” per san Giuseppe, la “palma” per la Madonna e una ciambella – cucciddatu – per il Bambino. In ciascuno sono abilmente intagliati i simboli primaverili e cristiani che già abbiamo visto effigiati negli altri pani. Così, sul bastone appaiono in rilievo il monogramma di san Giuseppe, i gigli – a memoria della straordinaria fioritura del bastone del Santo – le pere, le mele, l’uva. Nella palma spiccano il nome di Maria, le roselline, gli angioletti, la frutta come nel bastone e in particolare i datteri poiché, secondo la sacra leggenda, una pianta di datteri si piegò amorosamente fino ai piedi della Madonna per ristorarla quando con Giuseppe e il Bambino fuggiva verso l’Egitto. Sul pane di Gesù Bambino – u cucciddatu – accanto al suo nome si ripetono le raffigurazioni plastiche di fiori e frutta oltre alle spighe di grano, gli uccellini, i simboli della sua infanzia – a cammisedda e a fascia – e della sua passione e morte».
Di questa tradizione restano ancora amorevolezza e saggezza nelle abili mani di Enza Pizzolato, dell’omonima pasticceria, in Alcamo, che ha già regalato ai primi suoi avventori la delizia dei cucciddati, odore e sapori irripetibile d’una terra, quella siciliana, fortemente legata al cibo.
Buon San Giuseppe e auguri a tutti i papà, quelli che ti doneranno un bacio e quelli che ti sorreggono mentre percorrono pascoli erbosi.
di Antonio Fundarò – Feel Rouge TV